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Educare alla cultura e alla conoscenza attraverso un’accoglienza di qualità

Marco Magnifico

Presidente FAI Fondo per l’Ambiente Italiano

Ci può raccontare su quali presupposti nasce il FAI? Siete forse i pionieri di un turismo culturale esperienziale “non convenzionale”…

In realtà il FAI non nasce in chiave turistica. In origine l’attenzione dei fondatori – nel 1975 – non era rivolta alla gente quanto agli oggetti. Il principio ed il movente ispiratore iniziale del FAI era quello di salvare pezzi d’Italia dall’abbandono, dalla speculazione, dalla distruzione e si costituisce quindi, proprio come Fondazione con lo scopo essenziale di intercettare quei monumenti che senza l’aiuto del FAI sarebbero spariti. 
Naturalmente il pubblico era previsto, perché non si potevano salvare dei monumenti e poi lasciarli vuoti, ma non era previsto come lo scopo essenziale che ha invece assunto oggi a seguito di una modifica dello statuto avvenuta circa vent’anni dopo, alla fine degli anni ‘90. 
Da allora lo scopo esclusivo della Fondazione è diventato l’educazione della collettività alla conoscenza, attraverso tutte le attività che la Fondazione ha svolto sin dall’inizio come, ad esempio, gli interventi di restauro sui monumenti, come quelli di gestione e di valorizzazione, di tutte le iniziative necessarie affinché il pubblico, visitando e frequentando questi luoghi, venga educato. 
La missione del FAI si è quindi molto allargata, da un servizio alle cose, a un servizio alla gente.  

Cosa ha implicato questo passaggio?

Naturalmente se un visitatore diventa l’oggetto dell’ attività è necessario mettergli a disposizione tutti i servizi affinché goda e gioisca del tempo che vogliamo fargli vivere e sono ovviamente necessari quei servizi basilari dell’ospitalità “alberghiera”, un luogo dove mangiare, un prato dove sdraiarsi al sole, parcheggi e così via. 
L’anno scorso noi abbiamo avuto 1.100.000 visitatori nei nostri luoghi FAI aperti al pubblico.


Dal vostro osservatorio quali evoluzioni, criticità o opportunità state intercettando?  
Come chiunque abbia dei beni in contesti particolarmente interessanti, la criticità è la gestione del turismo di massa, che rappresenta un problema soprattutto per noi che dobbiamo assolutamente garantire un certo standard di qualità culturale assicurandola a tutti i tipi di visitatori. 
Per fare questo, per evitare le code infinite nei nostri luoghi, rendere la vita difficile al nostro personale nell’accompagnare adeguatamente i visitatori e offrire una reale esperienza di qualità, l’anno scorso nei mesi di luglio e agosto a Villa del Balbianello sul Lago di Como abbiamo dovuto mettere per la prima volta nella nostra vita il numero chiuso, decidendo di rinunciare al 30% dei visitatori con un danno economico notevole. 
Anche perché per una realtà come la nostra l’overtourism non rappresenta un problema di mera quantità, ma di gestione delle diversità di aspettative che l’allargamento del pubblico provoca. 
E’ chiaro che organizzare una visita di qualità dove si mettono insieme persone con una spiccata aspettativa per la conoscenza approfondita della storia dei luoghi, insieme a persone che vengono a visitare solo per farsi un selfie dove si è girata una scena di Star Wars, diventa un problema, specialmente per noi che puntiamo a contribuire ad alzare il livello culturale ed emozionale della gente, spiegando il perché un posto è così bello, quali sono i valori paesaggistici che lo distinguono, o perché i restauri sono fatti stati fatti in un certo modo.  
Non solo un luogo che si è visto, ma un luogo dal quale uscire con la consapevolezza di conoscere un pezzo in più di storia che rende una persona più colta e quindi più adatta ad affrontare una vita, come dicevo prima, più consapevole e civile.

Come nascono o vengono selezionati da Voi questi luoghi?

Non nascono per nostra scelta. Sono scelte che altri fanno di donare. Siamo poi noi che decidiamo o meno di accettare la donazione. La nostra ambizione principale è di diventare protagonisti nel “piccolo” contesto geografico nel quale esiste il Bene. Vogliamo che i beneficiari della nostra attività siano proprio i territori. 
Faccio l’esempio della piccola casa Macchi a Morazzone, un paese e vicino a Varese, dove non andava nessuno. 
Ci è stata regalata una casa e dopo avere deciso di accettarla l’abbiamo aperta al pubblico con un accordo di programma con il Comune di Morazzone e da allora la casa accoglie 20mila persone all’anno, creando un indotto per il Comune che ha poi costruito nuovi parcheggi e dove si sono aperti bar e ristoranti. 
Essere riconosciuti dagli amministratori, e dagli stakeholder di quei contesti turistico paesaggistici, come dei protagonisti di sviluppo culturale e anche economico è un aspetto che ci interessa moltissimo.

Avete una stima di quanto può essere la ricaduta della vostra presenza in un determinato territorio?

Difficile avere una stima perché varia da contesto a contesto. Ma quella dell’indotto è una responsabilità che sentiamo davvero moltissimo ed è anche una fortuna che le amministrazioni locali, con le quali oggi abbiamo un rapporto molto fluido, riconoscano in noi un’opportunità riuscendo ad essere un volano attrattivo non solo culturale, ma anche per un turismo diverso allargando il nostro stesso ventaglio. Per esempio abbiamo due alpeggi, uno in Valtellina e uno sul Montegrappa, e attraverso il racconto della loro storia e le iniziative che abbiamo sviluppato intorno a ciascuno, con anche la possibilità di accogliere delle scolaresche o persone che dormono in stalle riadattate, sono diventati mete turistiche rivitalizzando un’economia di pastorizia che è stata tradizionale per quelle montagne, che producono prodotti tipici del territorio che gli stessi visitatori possono scoprire e gustare.

Quindi per usare un’espressione associata al turismo: esperienziale? Non convenzionale, molto immersiva e sensoriale nei luoghi, nella loro storia?

Esattamente. Come, per fare un altro esempio accade a Villa dei Vescovi, una villa del ‘500 che abbiamo nei colli Euganei, dove il visitatore, dopo aver fatto il percorso nella villa, viene invitato a sedersi sui divani di midollino con cuscini e dei librettini messi a disposizione, che volendo si possono leggere in un’oretta guardando l’incantevole paesaggio antistante, sotto le logge affrescate del ‘500 di Lambert Sustris. Solo così non si è solo visitatori ma ospiti.
Vogliamo fare in modo che i luoghi gestiti da noi non siano dei musei, ma restino delle case, anche se tutelati e amministrati come dei musei.

Nel tempo siete riusciti a creare un brand che oggi gode di elevata notorietà e visibilità. Quali sono stati i fattori che lo hanno reso così importante e su cosa state puntando?

Noi viviamo grazie ai visitatori e oggi contiamo 320mila iscritti e nell’arco dei prossimi cinque anni vorremmo arrivare a 500mila. 
Siamo una bilancia in cui i due piatti devono essere in equilibrio: siamo a tutti gli effetti una Fondazione culturale da un lato e una impresa economica dall’altro, con una metà di colleghi che si occupano di aspetti più imprenditoriali e un’altra metà di aspetti culturali. 
Come una qualsiasi impresa economica strutturata abbiano uffici interi che si occupano di promozione a 360 gradi perché abbiamo anche noi l’obiettivo di accrescere la nostra base di iscritti: più adesioni abbiamo più pezzi d’Italia salviamo più attività culturale, educativa possiamo offrire.
Ma c’è un’altra cosa che è cruciale ed è il ruolo del personale dei Beni perché è sempre il rapporto umano che il nostro personale ha con i visitatori a fare la differenza, dall’ accoglienza alla visita, e a rendere speciale l’esperienza. 
E poi abbiamo una grande risorsa che è la rete di volontari, presente in tutta Italia, che scelgono di impiegare il loro tempo libero per sostenere la nostra missione. 
Questo esercito di volontari ci aiuta a far sentire il visitatore a proprio agio; chi decide di fare il volontario crede nella missione del FAI e questa è un’altra forza molto importante che fa la differenza.