immagine di copertina itinerario Il turismo lento si sviluppa facendo rete e narrazione
foto Matteo Montebelli

Il turismo lento si sviluppa facendo rete e narrazione

Matteo Montebelli

Responsabile Ricerche, Analisi e Pubblicazioni, Direzione Relazioni Istituzionali e Centro Studi, Touring Club Italiano

Cosa vuol dire, secondo Lei, praticare un turismo esperienziale?

Dobbiamo partire dal fatto che non esiste una definizione univoca e condivisa di cosa sia il “turismo esperienziale”: anche l’UNWTO, l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di turismo, nella sua pubblicazione dedicata (UNWTO Tourism Definitions, 2018) non menziona mai il turismo esperienziale tra tutte le tipologie di cui approfondisce il perimetro (es. turismo culturale, ecoturismo, turismo rurale, d’avventura, sanitario, d’affari, gastronomico, costiero, urbano, montano, educativo, sportivo). Molti di quelli citati non possono certamente considerarsi “nuovi turismi” e lo stesso discorso vale per
il turismo lento, per l’escursionistico o per quello culturale che interessa le destinazioni più piccole: per le aree che si chiamavano un tempo “Italia minore” il Touring Club, già negli anni ‘80, aveva
sviluppato prodotti editoriali dedicati. Esistono invece spunti interessanti intorno al concetto di “esperienza turistica” che può definirsi come la risultante di prestazioni, tangibili e intangibili, offerte dalle imprese turistiche, e più in generale dagli operatori coinvolti nella filiera, con cui si rendono fruibili gli aspetti di attrattività territoriale per soddisfare le esigenze del turista. Partendo da questo nuovo approccio, dunque, il concetto di prodotto turistico si evolve in chiave esperienziale: il turista non è più solo il destinatario di uno o molteplici servizi, ma un soggetto coinvolto personalmente, che interagisce con l’ambiente e partecipa anche alla produzione e all’erogazione del prodotto stesso.

Date queste considerazioni, cosa sta cambiando nel panorama di un turismo che potremmo chiamare non convenzionale?

Sicuramente la pandemia ha rappresentato una cesura che ha cambiato alcuni comportamenti delle persone. La necessità di evitare gli spazi chiusi, per esempio, ha dato nuovo impulso da una parte alle diverse forme di turismo open air: da quelle più tradizionali in campeggio a quelle più di nicchia come il turismo lento, il cicloturismo, ovvero pratiche che prevedono un certo impegno fisico. Inoltre, ha spinto anche a scegliere esperienze a valenza più culturale, facendo aumentare l’interesse per i piccoli centri e i borghi. In concomitanza con la pandemia, dunque, si sono sviluppati interessi differenti ma sicuramente interrelati: il desiderio di fare attività fisica, di fare esperienze open air e quello di scoprire luoghi nuovi, magari meno affollati e anche di prossimità, e le loro tradizioni storico-artistiche. Per provare a quantificare quanti sono in Italia i praticanti di turismo escursionistico, ovvero quello effettuato prevalentemente a piedi, per stare in contatto con la natura, ma anche per motivazioni religiose e spirituali, abbiamo condotto lo scorso autunno uno studio per conto di Enit dal quale emerge che in Italia attualmente ci sono 2,7 milioni di camminatori che salgono a 3,6 milioni se si aggiungono coloro che hanno fatto esperienze di cicloturismo. Ciò che rileviamo è che allo zoccolo duro degli “appassionati”, che già in passato avevano praticato questo tipo di turismo, si sono aggiunti in tempi recenti dei neofiti che vogliono ripetere queste esperienze di turismo escursionistico o lento anche nel prossimo futuro. Si tratta dunque di un nucleo di praticanti che appare oggi qualcosa di più di una nicchia e che costituisce una legacy positiva della pandemia su cui restano in ogni caso degli interrogativi: a questa nuova domanda l’offerta tradizionale saprà dare delle risposte?

A tale proposito che ruolo giocano e che importanza possono avere gli itinerari, i percorsi e i cammini?

Questo è un tema fondamentale che può presentare delle difficoltà. Offrire e comporre un prodotto che si identifica con un itinerario vuol dire mettere a sistema amministrazioni pubbliche che magari si trovano in Regioni diverse e creare un network di operatori privati; ciò può rendere la predisposizione dell’offerta, se non più complessa, sicuramente più laboriosa. Occorre trovare luoghi di concertazione, condivisione e dialogo e poi riuscire effettivamente a misurare qual è la ricaduta di questo turismo sui territori per motivare tutti gli attori in gioco a fare ognuno la propria parte.

Quali sono, secondo Lei, le regole con cui sviluppare azioni affinché un itinerario si trasformi in prodotto/brand che sia in qualche modo poi riconosciuto come tale?

Direi che sostanzialmente non funzionano i due modelli opposti, cioè quello dell’itinerario “calato dall’alto” per volontà di qualcuno che intende promuoverlo perché magari esiste un finanziamento, così come non basta nemmeno l’itinerario “voluto dal basso” dove c’è un gruppo di appassionati che però non riesce a innescare una rete di relazioni o un ingaggio del territorio. Abbiamo censito un centinaio di cammini in tutta Italia. Di questi, solo una sessantina aveva un sito turistico, cioè uno spazio di comunicazione che fa emergere la presenza di un’organizzazione strutturata in grado di predisporre per un potenziale turista un’offerta fatta non solo di informazioni ma anche di servizi. Un caso interessante degli ultimi anni è quello della Via degli Dei che collega, attraverso l’Appennino, Bologna e Firenze: non è bastata la volontà dei soggetti singoli per riuscire a strutturare un prodotto con ottimi riscontri di pubblico, ma sono stati necessari passaggi formali attraverso accordi tra amministrazioni di Regioni differenti con l’intuizione di creare una struttura ad hoc chiamata “Appennino Slow”: un tour operator che si occupa non solo di organizzare e promuovere il cammino, ma anche di gestire i punti informativi sul territorio. A fare la differenza poi è la narrazione che si fa di un’esperienza turistica, la capacità di racconto, l’abilità di intercettare la narrazione giusta e di restituirla in modo interessante, facendola diventare virale.

Quali sono le esperienze più significative in termini di comunicazione e di costruzione del brand?

La Toscana da anni svolge un lavoro molto interessante in termini di racconto del territorio e dei suoi aspetti più autentici. Poi l’Alto Adige ha sicuramente lavorato molto sul tema dell’esperienza e su quello dell’esclusività per raggiungere un obiettivo di medio lungo periodo di contenimento dei flussi per far fronte all’overtourism, salvaguardando un capitale d’immagine fondamentale per il territorio: se alcune destinazioni come il lago di Braies diventano paragonabili a piazza San Marco a Venezia, rischia che vacilli la costruzione immaginifica fatta attorno alle vallate.

E il Touring Club ha fatto delle campagne specifiche sul tema dell’esperienza?

Nel corso del 2020, durante la pandemia e in concomitanza con la stagione estiva, il Touring Club Italiano ha lanciato la campagna di comunicazione #EstateNeiBorghi per sostenere la ripresa turistica nei borghi certificati con la Bandiera Arancione (quasi 300 in tutta Italia che il TCI premia al termine di un processo di verifica dei requisiti e di una visita in incognito). Abbiamo impostato una campagna di comunicazione che aveva come testimonial i residenti, la loro professione e il loro desiderio di accogliere i turisti piuttosto che evidenziare soltanto il bel paesaggio o le bellezze storico-artiche che risultano ormai un po’ stereotipate. L’idea è stata quella di mettere al centro le persone tramettendo il messaggio che c’era una comunità ospitante pronta ad accogliere il turista per fargli vivere un’esperienza da local. Abbiamo poi lavorato sulle connessioni tra turismo e altri settori, in particolare con quello musicale per favorire la creazione di prodotti esperienziali da costruire attorno all’offerta concertistica classica del territorio veneto. Sono state elaborate iniziative molto creative per trasformare semplici eventi musicali in weekend di scoperta: dalla cena in cui si raccontano i piatti preferiti del compositore alla visita di palazzi e ville in cui il tema musicale è ripreso in dettagli dell’architettura o delle decorazioni.
Si è cercato quindi di trovare il filo rosso che potesse collegare l’evento musicale ad altre esperienze turistiche del territorio.

Su questi aspetti, secondo Lei, l’Italia com’è posizionata rispetto agli altri paesi competitors? 

Dal punto di vista della desiderabilità l’Italia ha un vantaggio competitivo oggettivo: sempre le nostre ricerche hanno messo in evidenza che per i tre mercati esteri analizzati (Francia, Germania, Regno Unito) il nostro Paese è sempre il primo tra quelli scelti per fare esperienze di turismo lento. Le regioni preferite da questo punto di vista sono Sicilia e Toscana.