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foto Paolo Massobrio

Dal vino la scoperta del genius loci di un territorio

Paolo Massobrio

Giornalista e comunicatore enogastronomico, Fondatore Golosaria

L’enogastronomia ha sempre rivestito una grande rilevanza sociale, culturale ed economica per l’Italia e sta vivendo un’ulteriore crescita al punto che si parla sempre più di turismo esperienziale enogastronomico. In generale, in cosa consiste secondo Lei?

Il turismo enogastronomico è un fenomeno in crescita: lo era prima del Covid ed è cresciuto moltissimo anche nel primo anno post-pandemia. Tutto questo è frutto di un esperimento, che poi si è consolidato nel tempo, nato grazie ad una legge quadro del 1985 che iniziò a disciplinare il fenomeno degli agriturismi. Un fenomeno che ha avuto una doppia valenza: da un lato offrì a giovani generazioni di coltivatori l’opportunità di aprirsi al mondo favorendo quella relazione che non era nelle corde delle generazioni precedenti e dall’altro è arrivato a coprire un’offerta di posti letto in luoghi dove ormai gli alberghi di campagna avevano segnato il passo. Ma la chiave che ha fatto diventare l’agriturismo una realtà è il vino. Per vendere vino, già negli anni Settanta, si era soliti offrire pane, salame, qualche piatto tipico. Con l’agriturismo tutto questo si è strutturato. Ma se il turismo enogastronomico è in un certo senso figlio dell’agriturismo, oggi rappresenta qualcosa a sé, molto diverso dai modelli iniziali.

In che modo allora si è evoluto il turismo enogastronomico? 

Si tratta di un turismo che cresce parallelamente all’incremento di interesse verso la conoscenza del vino. Ne fa fede, da ormai 30 anni, il sold out a tutti i corsi per sommelier, promossi inizialmente dall’AIS (Associazione Italiana Sommelier) e poi via via da tutte le altre associazioni analoghe che sono nate, come OVAV, FISAR, FIS. Si può dire che questo fenomeno nasce all’interno di una tempesta perfetta, che porta la data del 1990, ovvero quattro anni dopo lo scandalo del vino al metanolo che diede un duro colpo di immagine al vino italiano. Fu una sorta di tempesta perfetta, e ne sono stato cronista e testimone, nel senso che permise il ritrovarsi fra giovani: giovani produttori di vino che in quegli anni decidono di investire nel medio e lungo periodo, giovani consumatori consapevoli e, soprattutto, giovani che hanno trasformato i bar in wine bar, caratterizzando addirittura i centri storici delle città. Ecco allora che anche le cantine hanno iniziato ad intercettare direttamente questo fenomeno, con strutture proprie e con una crescita di investimenti negli ultimi dieci anni (e un’accelerazione negli ultimi cinque), anche per far fronte alla necessità di consolidarsi sul mercato interno, dopo la paura del Covid che ha inciso sulle esportazioni. 

Quali forme assume oggi questo concetto? E con quali altre forme di turismo esperienziale si può intrecciare quello enogastronomico?

C’è l’azienda che ha creato un’elegante sala di degustazione dove offre pacchetti di degustazione dei propri vini, abbinati spesso ad esperienze come il pic nic in vigna, la visita ai vigneti e alla cantina per conoscere i processi di produzione. C’è poi la cantina che ha allestito un resort dotato di camere. Poi c’è il resort completo, con camere, ristorante, sala degustazione, piscina e spa che intercetta principalmente una clientela straniera. Ma esistono anche esperienze immersive nella natura, come le cantine che hanno allestito, dentro i propri terreni e nei vigneti, delle Starsbox. Quindi esperienze di trekking, yoga, e-bike sempre abbinate a degustazioni. Molte cantine offrono esperienze personalizzate per coppie o gruppi. Ultimo tassello, la nascita delle Big Bench, ovvero le panchine giganti poste di fronte a un panorama bello, che ha favorito un circuito dove i wine lovers amano farsi fotografare, segnando le varie tappe. 

Chi è e cosa cerca il turista enogastronomico? Esistono differenze generazionali? 

Il turista enogastronomico cerca quello che c’è dietro la bottiglia, ovvero la famiglia, il produttore, le sue ragioni di vita, il racconto. Il target che fruisce maggiormente di queste situazioni si posiziona dai 25 ai 45 anni, ossia l’età dove inizia a maturarsi una certa capacità di spesa. Oggi l’enoturismo offre esperienze per tutte le tasche e anche gli studenti universitari, spesso, sono i protagonisti di questi viaggi nelle cantine. L’esperienza del resort, è invece appannaggio di un altro target, che va dai 45 anni in su, dove c’è anche una clientela più esigente e più consapevole del valore di un vino.  

Storicamente in quest’ambito l’Italia vanta una lunga tradizione e una positiva reputazione. Dove, secondo Lei, l’Italia può ulteriormente rafforzare questo suo “naturale” vantaggio competitivo? E quali i punti di debolezza?

Il punto di debolezza è lo stesso del turismo classico: se non si rinnova la proposta e con essa la struttura di accoglienza, l’offerta rischia di scemare anche perché la concorrenza è alta. Non è possibile sedersi sugli allori, anche perché in gioco c’è l’occasione di ottenere, da parte delle cantine, un maggior valore aggiunto sulle bottiglie somministrate o vendute, tenendo conto che una struttura che offre esperienze enoturistiche deve arrivare almeno al 15-20% del vino venduto direttamente. Per rafforzare questo vantaggio, diventa necessario investire sulla comunicazione, che abbraccia i social, ma parte dalla creazione di un sito aziendale chiaro, semplice, capace di declinare subito l’offerta con prezzi dei vari pacchetti. E ancora in pochi ancora lo fanno. 

Parliamo di stakeholder e filiera. Qual è il ruolo delle istituzioni, delle imprese e delle comunità locali in questo processo?

Le istituzioni sembrano spesso impreparate di fronte a questo fenomeno, considerato un investimento privato che incide minimamente sull’indotto di un territorio. Ed è sbagliato, perché la reputazione di un territorio che significa anche l’aumento dei prezzi dei terreni e delle case, passa attraverso la nascita e la presenza di più occasioni di turismo enogastronomico. Per rispondere a questa domanda resta un esempio virtuoso quello di “Golosaria” tra i castelli del Monferrato, nata 18 anni fa con l’intento di aumentare la reputazione di un territorio. Un evento di tre giorni attorno al quale si è sviluppata una comunicazione efficace che è partita dal racconto della storia millenaria di quella che è una delle zone più “castellate” d’Italia. Dopo dieci anni, sono cresciuti gli investimenti immobiliari, compresa la nascita di nuove cantine, per iniziativa di imprenditori, professionisti, amanti della vita in campagna. Ma il passo successivo è culturale, nel senso che la scoperta della storia di un territorio, il suo genius loci, i suoi personaggi, concorrono al fattore identitario, a immedesimarsi con esso, e nel contempo a diventarne ambasciatori naturali. Tutto questo è l’humus su cui possono nascere gli investimenti del futuro. 

Lei ha una lunga esperienza come giornalista su diversi media. Quali sono, secondo Lei, i canali, i mezzi e i linguaggi che meglio sanno trasmettere il senso e la particolarità del turismo enogastronomico? 

Quello che ha meglio trattenuto il senso di un territorio è già avvenuto: sono gli scrittori (si pensi a Pavese e alle sue descrizioni del paesaggio), i pittori, gli artisti, i paesaggisti, i registi. C’è una ricchezza da questo punto di vista che tuttavia va continuamente riscoperta, mentre spesso si banalizza il tutto col prodotto e il piatto tipico, dimenticando l’origine che va sempre raccontata. Se penso ad esperienze riuscite devo andare in Friuli-Venezia Giulia, ma anche nelle Langhe, Roero e Monferrato, che mi toccano da vicino, essendone stato un protagonista attivo. Pensiamo di nuovo al caso di “Golosaria” tra i castelli del Monferrato: quella è innanzitutto un’esperienza di comunicazione, che è nata con l’obiettivo di far girare un nome, replicato ovunque e il più possibile: il nome del Monferrato. È un’esperienza che ha messo a sistema un territorio e che ha insegnato ai Comuni a tirare fuori i propri valori, le proprie bellezze, sapendo che sullo sfondo c’è la bellezza paesaggistica che è più convincente di qualsiasi altra parola. Solo l’esperienza, ossia la presenza di una persona che ha deciso un viaggio in quella meta, diventa qualcosa di solido nel tempo. Diventa insomma memorabile, dove la memoria può essere anche fissata da un vino, da un piatto, da un racconto che proviene da una civiltà, quella contadina, che prosegue sotto forme nuove, anche qui, rese contemporanee dai giovani. E poi ci sono i social, che richiedono applicazione tecnica costante e non estemporanea; la vera risorsa che spesso non consideriamo sono i giovani e la loro freschezza comunicativa e per questo occorre saper coinvolgerli.